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Missione terra

 

Lo sviluppo è compatibile con la conservazione dell'ambiente? Un Nobel dice di sì. E in questo articolo spiega come la crescita dei diritti umani e della democrazia aiuti un'economia sostenibile e responsabile per l'equilibrio del pianeta

 In che modo lo sviluppo umano si lega alle nostre preoccupazioni per l'ambiente in generale e ai cambiamenti climatici in particolare? Nelle discussioni politiche, le abitudini consolidate ci inducono a considerare le esigenze di sviluppo e la conservazione dell'ambiente in termini più o meno antagonistici. L'attenzione spesso si concentra sul fatto che molte dinamiche che aggravano la situazione dell'ambiente nel mondo, tra cui il riscaldamento globale e altri indizi allarmanti di cambiamenti climatici, sono legate all'intensificazione dell'attività economica, come la crescita industriale, l'aumento dei consumi energetici e dell'irrigazione intensiva, l'abbattimento di alberi a fini commerciali e altre attività tendenzialmente collegate all'espansione economica. A livello superficiale, il processo di sviluppo può apparire responsabile dei danni ambientali. D'altro canto, gli ambientalisti sono spesso accusati dagli entusiasti dello sviluppo di essere 'antisviluppo', in quanto il loro attivismo sovente assume la forma di una certa opposizione nei confronti di processi che possono aumentare i redditi e ridurre la povertà, a causa del loro presunto impatto negativo sull'ambiente. Le linee dello scontro possono essere più o meno nette, ma è difficile sfuggire al senso di tensione presente, a vari livelli, tra i promotori della riduzione della povertà e dello sviluppo, da un lato, e i sostenitori dell'ecologia e della conservazione dell'ambiente, dall'altro.
L'approccio basato sullo sviluppo umano offre qualche argomento che ci permetta di comprendere se questo conflitto apparente tra sviluppo e sostenibilità ambientale sia reale o immaginario? La logica dello sviluppo umano può offrire un contributo enorme, adottando la prospettiva centrale che considera lo sviluppo come espansione della libertà umana effettiva, che di fatto è il punto di partenza di tale logica. In questa prospettiva più generale, la valutazione dello sviluppo non può prescindere dal prendere in considerazione la vita che le persone possono condurre e le libertà reali di cui possono godere. Lo sviluppo non può essere esaminato soltanto in termini di miglioramento di oggetti utili inanimati, come un incremento del reddito nazionale lordo (o dei redditi personali). Questo è l'elemento fondamentale che la logica dello sviluppo umano ha introdotto nella letteratura sullo sviluppo sin dai suoi esordi, e questa intuizione riveste importanza critica oggi per fare chiarezza riguardo alla sostenibilità ambientale. Una volta che si riconosce la necessità di considerare il mondo nella prospettiva più ampia delle libertà effettive degli esseri umani, diventa immediatamente chiaro che lo sviluppo non si può separare dalle preoccupazioni ecologiche e ambientali. Infatti, componenti importanti delle libertà umane, e ingredienti fondamentali della qualità della vita, dipendono totalmente dall'integrità dell'ambiente, tra cui l'aria che respiriamo, l'acqua che beviamo, il contesto epidemiologico in cui viviamo, eccetera. Lo sviluppo deve comprendere l'ambiente, e la convinzione che lo sviluppo e l'ambiente debbano essere in contraddizione tra loro non è compatibile con i principi fondamentali della logica dello sviluppo umano.
L'ambiente talvolta è erroneamente considerato come lo stato della 'natura', rispecchiato da misure quali l'estensione della superficie forestale, la profondità della falda freatica, eccetera. Questa interpretazione, tuttavia, è assai deficitaria per due importanti motivi. In primo luogo, il valore dell'ambiente non può essere inteso solo in termini di ciò che esiste: si devono prendere in considerazione anche le opportunità che di fatto offre. L'impatto dell'ambiente sulla vita umana deve figurare, tra l'altro, tra le considerazioni rilevanti per la valutazione della ricchezza dell'ambiente. Infatti, il lungimirante rapporto della Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo, presieduta da Gro Brundtland, 'Il futuro di noi tutti'(1987), chiarì questo concetto, concentrandosi sul sostegno volto a soddisfare i 'bisogni' umani. In realtà, possiamo andare oltre l'accento posto dal rapporto Brundtland sui bisogni umani e introdurre la sfera più ampia delle libertà umane, in quanto la logica dello sviluppo umano impone di considerare le persone non solo come 'bisognose', ma anche come individui che devono vedersi garantita (e se possibile estesa) la libertà di fare ciò che hanno motivo di fare.
Ogni persona ha ovviamente motivo di soddisfare i propri bisogni, e le applicazioni basilari della logica dello sviluppo umano (per esempio, ciò che si ricava dal semplice indice di sviluppo umano, l'Isu) si concentrano infatti proprio su questo. Tuttavia, la sfera delle libertà può spingersi ben oltre e una prospettiva più completa dello sviluppo umano può tenere conto della libertà delle persone di fare cose che non sono determinate esclusivamente dai loro bisogni. Per esempio, gli allocchi maculati possono non rappresentare, in alcuna forma evidente, un 'bisogno' per gli esseri umani, eppure, se questi ultimi hanno motivo di opporsi all'estinzione di tale specie, il valore della loro libertà di conseguire questo obiettivo ponderato può essere la base di un giudizio ragionato. La prevenzione dell'estinzione di specie animali che noi esseri umani vogliamo preservare (non tanto perché abbiamo 'bisogno' di questi animali in un senso specifico, ma perché riteniamo che sia una cattiva idea permettere la scomparsa definitiva delle specie esistenti) può essere parte integrante della logica dello sviluppo umano. Infatti, la salvaguardia della biodiversità verosimilmente emerge come preoccupazione nelle riflessioni responsabili sui cambiamenti climatici.
In secondo luogo, l'ambiente non è solo una questione di conservazione passiva, è anche un obiettivo da perseguire attivamente. Non dobbiamo pensare all'ambiente solo in termini di condizioni naturali preesistenti, in quanto l'ambiente può comprendere anche i risultati della creazione umana. Per esempio, la depurazione dell'acqua fa parte del miglioramento dell'ambiente in cui viviamo. L'eradicazione delle epidemie, come il vaiolo (che è già avvenuta) e la malaria (che dovrebbe avvenire molto presto, se riusciremo a rompere gli indugi), è un buon esempio di miglioramento ambientale che possiamo realizzare. Questo riconoscimento esplicito ovviamente non cambia il fatto significativo che il processo di sviluppo economico e sociale, in molte circostanze, può anche avere conseguenze devastanti. Questi effetti sfavorevoli devono essere individuati in modo chiaro e contrastati con fermezza, parallelamente al rafforzamento dei contributi positivi e costruttivi dello sviluppo. Anche se molte attività umane che accompagnano il processo di sviluppo possono avere conseguenze negative, rientra nelle facoltà umane contrastare e prevenire un gran numero di tali conseguenze adottando provvedimenti tempestivi.
Nel riflettere sulle misure che si possono adottare per arrestare la distruzione dell'ambiente, dobbiamo individuare interventi umani costruttivi. Per esempio, livelli più elevati di istruzione e di occupazione femminile possono contribuire a ridurre i tassi di fertilità, il che a lungo andare può attenuare le pressioni sul riscaldamento globale e la crescente distruzione degli habitat naturali.
Analogamente, l'espansione dell'istruzione scolastica e il miglioramento della sua qualità possono renderci più sensibili all'ambiente. Una migliore comunicazione e mezzi di informazione più fecondi possono renderci maggiormente consapevoli della necessità di una riflessione improntata all'ambiente.
Infatti, la necessità della partecipazione pubblica riveste importanza cruciale per garantire la sostenibilità ambientale. Altrettanto essenziale è evitare di ridurre importanti questioni di valutazione umana, che esigono riflessioni e considerazioni sociali deliberative, a questioni strettamente tecnocratiche basate su calcoli stereotipati. Per esempio, esaminiamo il dibattito in corso sul 'tasso di sconto' da applicare per bilanciare i sacrifici attuali e la sicurezza futura. Un aspetto essenziale di tale sconto è la valutazione sociale dei vantaggi e delle perdite nel tempo. In definitiva, si tratta di una questione che richiede una profonda riflessione e che deve essere oggetto di discussione pubblica, più che di un esercizio inteso a trovare una soluzione meccanica sulla base di una semplice formula.
Forse la preoccupazione più significativa deriva dall'incertezza inevitabilmente associata a qualsiasi previsione futura. Un motivo per essere prudenti in merito all''ipotesi migliore' riguardo al futuro è la possibilità che, se imboccassimo la direzione sbagliata, il mondo che finiremmo per avere potrebbe essere estremamente precario. Vi è persino il timore che ciò che si può impedire ora possa diventare praticamente irreversibile in assenza di misure preventive immediate, a prescindere da quanto le generazioni future possano essere disposte a spendere per rimediare alla catastrofe. Alcuni di questi eventi nefasti potrebbero rivelarsi particolarmente perniciosi per i paesi in via di sviluppo (per esempio, regioni costiere del Bangladesh o l'intero arcipelago delle Maldive potrebbero essere sommersi a causa dell'innalzamento del livello dei mari).
Sono questioni di importanza fondamentale per l'analisi e la discussione pubblica, e lo svolgimento di un dialogo pubblico costituisce un elemento significativo dell'approccio basato sullo sviluppo umano. La necessità di tali discussioni pubbliche è tanto importante per affrontare i cambiamenti climatici e i pericoli per l'ambiente quanto lo è per affrontare i più classici problemi della privazione e del persistere della povertà. Ciò che caratterizza gli esseri umani, forse più di qualunque altra cosa, è la nostra capacità di pensare e di parlare gli uni con gli altri e di decidere che cosa fare e poi farlo. Dobbiamo fare buon uso di questa capacità umana per eccellenza, sia per un sostegno ragionato a favore dell'ambiente sia per l'eradicazione coordinata della povertà e delle privazioni vecchio stile. Lo sviluppo umano entra in gioco in entrambi i casi.

Amartya Sen

 

 

 

 

Undicesimo: non inquinare

di

La generazione di calore, le attività energivore, le auto e gli aerei. L'Unione europea propone tagli drastici alle emissioni di CO2. Ma pochi paesi si adeguano. E l'industria non vuole pagare da sola

 

L'undicesimo comandamento - non inquinare - piace alla vecchia Europa della politica e delle istituzioni, anche se non mancano naturalmente gli attriti con le lobby. E la battaglia contro l'effetto serra pare destinata a farsi ancor più infuocata. Alla Conferenza sui cambiamenti climatici dell'Onu, in programma a Bali dal prossimo 3 dicembre, l'Unione europea alzerà infatti la posta della sua sfida anti CO2: chiederà una riduzione del 30 per cento delle emissioni di gas serra per i paesi industrializzati, e del 60-70 per cento entro il 2050. Bruxelles ha anche reso noto che le proiezioni dimostrano che l'Europa è sulla buona strada per raggiungere l'obiettivo di Kyoto ma deve insistere nel suo impegno.
La generazione di calore e di energia è, tra le fonti non naturali, la principale causa del riscaldamento globale. Secondo i dati più recenti di Enerdata, a livello mondiale vale il 39 per cento delle emissioni di CO2, la sigla che identifica l'anidride carbonica e negli ultimi mesi è diventata il nemico numero uno per milioni di cittadini del primo mondo. Dà il suo contributo anche il pianeta del trasporto: il 26 per cento dell'effetto serra è colpa di aerei, macchine, camion e veicoli di ogni genere. Sul terzo gradino del podio si sistema l'industria, con il 16 per cento. In Italia, secondo Legambiente, il peso dell'industria è del 18 per cento. Finora, le attenzioni dell'Unione europea si sono indirizzate in particolare verso i produttori di energia e le imprese che nella loro attività di energia ne consumano tanta (come quelle siderurgiche, vetrarie, chimiche, cementiere, cartarie), provando a mettere tutti in riga con il meccanismo dei tetti.
Dal 2005 è in vigore il sistema dell'Emission trading: se superi il livello di emissioni di CO2 stabilito, o paghi la multa o compri i certificati verdi. Ora Bruxelles si concentra sul mondo sui trasporti. Così, mentre discute sui limiti di emissioni di anidride carbonica per le vetture, cozzando con la strenua difesa dei costruttori raggruppati nell'Acea, l'Europa prova a ripulire i cieli. Secondo le stime della Ue, le emissioni di gas serra prodotte dai voli internazionali sono infatti cresciute del 7,5 per cento rispetto al 2003 e dell'87 per cento rispetto al 1990. A partire dal 2011 tutti i voli in partenza o in arrivo negli aeroporti dovranno emettere l'8 per cento di CO2 in meno entro il 2012.
A ogni compagnia saranno assegnate delle quote, calcolate seconda la media delle loro emissioni degli ultimi anni. Inoltre, come fanno già le industrie 'energivore', potranno comparsi i certificati sul mercato. Le nuove regole avranno ovviamente un riflesso sui conti delle compagnie e quindi anche dei biglietti. C'è chi, come il deputato tedesco Peter Liese della commissione Ambiente, relatore della proposta appena approvata al Parlamento europeo, ne minimizza l'impatto finanziario sulle società: "Il sistema di scambio di quote frenerà probabilmente la crescità del settore aereo, soprattutto quello low cost, ma non creerà disastri economici per le aerolinee e l'effetto sul costo dei biglietti sarà comunque minore rispetto ad altre misure, come le tasse sul carburante o sulle emissioni di ogni singolo volo". Non la pensano così quelli della Aea, l'associazione che rappresenta 31 vettori europei: "I signori che hanno approvato queste nuove regole non hanno idea delle conseguenze catastrofiche e irreparabili che ricadranno sul mercato", tuona la portavoce Aea, Françoise Humbert.
È lastricata di aspre polemiche anche la via che porta al taglio delle emissioni delle auto. La Commissione europea pareva lanciata a fissare un limite di massimo 120 grammi di CO2 al chilometro alle vetture, da rispettare entro il 2012. A fine ottobre, a Strasburgo c'è stato il ritocchino verso l'alto: 125 grammi entro il 2015. Anche se protestano in blocco, i costruttori non hanno tutti gli stessi problemi: gruppi come Fiat, Psa-Citroën e Renault, che hanno nelle gamme molte vetture piccole, sono meno lontane dal limite di quei marchi che costruiscono vetture più grosse e potenti. Progressi ne sono stati fatti, grazie alle normative che hanno istituito i vari Euro 3 e Euro 4. Un recente studio di AlixPartner sostiene che le emissioni globali delle auto sono rimaste stabili nonostante il raddoppio del traffico. Spazio per migliorare ce n'è parecchio, ma servono investimenti e vincoli normativi stringenti per spingere i costruttori e pure il pubblico. Gli italiani metropolitani, in particolare, dovrebbero interrogarsi a fondo sui propri costumi, visto che a Roma e a Milano circolano 70 auto ogni cento abitanti: il doppio rispetto a Londra e Parigi.
Alla vigilia della conferenza di Bali, promesse e proclami buonisti fioccano. La Cbi, l'associazione degli industriali britannici, ha presentato un programma più che ambizioso, che dovrebbe portare nel 2050 il Regno Unito a dimezzare le emissioni di gas serra. E la commissione per lo sviluppo sostenibile immagina che la diga progettata sull'estuario del fiume Severn, sfruttando il moto ondoso e le maree, sia in grado di coprire il 5 per cento del fabbisogno elettrico inglese. In Germania, il piano del governo di coalizione tedesco, guidato da Angela Merkel, punta a una limatura del 40 per cento delle emissioni di CO2 rispetto ai livelli del 1990. E chi snobba la CO2 rischia di fare la fine di John Howard, il premier conservatore che ha pilotato un ciclo economico record per l'Australia, con undici anni di crescita e la disoccupazione ai minimi storici. Ha perso le elezioni perché ha sempre sottovalutato l'effetto serra: per il 73 per cento degli australiani il cambiamento climatico ha avuto "una forte influenza" sul voto.
In Italia, entro dicembre il governo dovrà definire la distribuzione dei tagli alle emissioni di CO2. Una vicenda che si trascina da mesi e che da Confindustria vedono più o meno così: l'impresa ha già fatto la sua parte, impossibile che la sforbiciata della proposta governativa (13 milioni di tonnellate di CO2) ricada tutta sulle spalle delle aziende produttrici. Alfonso Pecoraro Scanio, ministro dell'Ambiente, promette un piano nazionale di tagli prima della fine dell'anno, che andrà a toccare trasporti, terziario e settore residenziale. Spiega Luigi Tischer, direttore generale della Robur, azienda bergamasca che fa caldaie a pompa di calore (fattura una quarantina di milioni di euro): "Basterebbe sostituire con pompe di calore a gas poco più dell'uno per cento delle attuali caldaie operanti in Italia per risparmiare in un anno 3,9 milioni di tonnellate di CO2". In Italia si considerano all'avanguardia - e si incentivano per legge - le caldaie a condensazione, che in Inghilterra sono obbligatorie da due anni se si costruisce o si ristruttura un immobile.
Sul fronte dei materiali per le costruzioni, Italcementi ha brevettato TX Activ, un principio attivo fotocatalitico per prodotti cementizi, che abbatte gli inquinanti organici e inorganici presenti nell'aria. A Milano, rivestendo il 15 per cento di tutte le superfici urbane a vista, si ridurrebbe l'inquinamento atmosferico del 50 per cento. E dall'utilizzo del prodotto all'interno del tunnel di via del Tritone, a Roma, Italcementi si attende un calo dell'inquinamento tra il 20 e il 30 per cento.
Anche tra i piccoli imprenditori, quelli senza obblighi né tetti da rispettare, si fa strada una certa coscienza ecologica. La conferma viene da Sorgenia, società del gruppo Cir (editore de 'L'espresso') che vende 10 miliardi di kilowattora di energia all'anno. Il grosso della produzione di Sorgenia - attiva anche nell'eolico e nel fotovotaico - è realizzato con impianti a ciclo combinato che emettono oltre 200 grammi in meno di CO2 al kilowattora: "Dei nostri 370 mila clienti con partita Iva, più della metà svolgono attività manufatturiere: il fattore-prezzo resta ovviamente fondamentale ma c'è il fatto che comprare energia meno nociva all'ambiente piace, e sta pian piano facendosi largo anche come una motivazione d'acquisto", racconta l'amministratore delegato, Massimo Orlandi.
Tornando tra le mura domestiche, significativi passi avanti hanno fatto anche gli elettrodomestici. Lavatrici e lavastoviglie di oggi consumano mediamente il 35 per cento in meno di quelle di dieci anni fa, e le migliori anche il 50 per cento. In questo decennio, le industrie del settore hanno investito circa 3 miliardi per migliorare l'efficienza energetica, e si sono fatte meno sprecone nel produrre. La Indesit Company di Vittorio Merloni, secondo gruppo in Europa, tra il 2000 e il 2006, per ogni pezzo prodotto ha diminuito del 40 per cento l'emissione di CO2, del 20 per cento l'energia impiegata e del 15 l'acqua utilizzata. E a proposito di acque, nel vicentino ottimi risultati ha ottenuto l'Agenzia Giada. Partendo da un finanziamento europeo ha spinto il comparto della concia della Val di Campo, il più importante d'Italia, a ridurre in modo drastico gli scarichi dannosi in fiumi e canali e soprattutto a diminuire la diffusione nell'aria dei solventi utilizzati per colorare le pelli: da 18 mila tonnellate del 1996 a 7.500 l'anno scorso. Per diventare società a impatto zero, invece, 3 Italia segue tre strade: propone i primi videofonini Umts riciclati, rigenerando vecchi apparecchi; pianta alberi nei parchi milanesi; assottiglia il parco auto aziendale. Calare la scure sulle flotte aziendali prende piede: il mensile 'Quattroruote' ha convinto dieci grandi gruppi, tra cui Autogrill, Coca Cola HBC Italia, Intesa Sanpaolo e Pirelli Tyre, a impegnarsi a diminuire del 10 per cento le emissioni di anidride carbonica nel 2008. Non è possibile sapere con precisione l'entità dei tagli di CO2 della Fiat, però si sa che negli stabilimenti in cui produce auto, il gruppo torinese nel periodo 2001-2006 ha ridotto del 31 per cento l'uso di acqua e del 19 per cento l'emissione di composti organici volatili per metro quadro di superficie verniciata.

Maurizio Maggi - ha collaborato Emanuele Giusto

 

 

 

 

Buste di carta e semafori ecologici

 

A volte basta davvero poco per risparmiare energia e inquinare di meno. Poi se al risparmio energetico si aggiunge anche la possibilità di evitare di sporcare allora il gioco diventa ancora più facile. A Londra lo hanno fatto e hanno deciso di prendere i classici due piccioni con una fava.
Mai più plastica
L'idea è semplice: abolire i sacchetti di plastica in tutti i negozi della città. Gli shopper sono infatti uno dei prodotti più inquinanti che esistono al mondo, per una banale ragione: sono fatti di plastica non biodegradabile. Questo vuol dire che non solo rimangono nell'ambiente per anni prima di essere distrutti, ma anche che per fabbricarli occorre consumare petrolio e quindi emettere nell'atmosfera anidride carbonica. Per smaltire una busta di plastica ci vogliono in media dai dieci ai 20 anni, e nel mondo ne vengono prodotte ogni anno circa 500 miliardi, il che vuol dire 1 milione di buste al minuto. Ora nella capitale inglese hanno deciso di dire basta agli shopper di plastica. Nei supermarket di Londra a partire dal 2008 ci saranno solo buste di carta, si spera riciclata. Nel mondo hanno già eliminato gli shopper paesi come Taiwan e Australia. Il Giappone ha invece optato per una tassa sulla plastica seguendo l'esempio dell'Irlanda. L'Eire, infatti, ha introdotto la tassa Plastax dal 2002, permettendo di tagliare del 90 per cento il consumo delle buste di plastica e di rimpinguare le casse dello Stato di 8 milioni di euro passando da un consumo di 1,2 miliardi l'anno a poco più di 200 milioni. Anche in Italia si dovrà dire addio ai sacchetti di plastica, ma non prima del 2010.
Siamo a cavallo
Risparmiare energia per molti significa anche tornare indietro, fare un salto nel passato. Allora se davvero è così perché non reintrodurre i cavalli e i carri trainati da cavalli? Sembra uno scherzo o la provocazione di qualche ostinato oppositore alle politiche di risparmio energetico. Invece è una soluzione a cui hanno fatto ricorso in Francia 70 sindaci di altrettante città e cittadine d'Oltralpe. Invece di usare bus
e camion per svolgere alcuni servizi pubblici, in queste cittadine sono tornati i cavalli. E l'idea piace, soprattutto ai ragazzi di Saint Pierre sur Dives nel Calvados che invece dello scuolabus hanno a disposizione una bellissima carrozzella. E piace anche ai netturbini di Trouville, in Normandia che usano i cavalli per trainare carretti dove si trasportano rifiuti rigorosamente riciclabili. All'aeroporto di Beauvais, un centinaio di chilometri a nord di Parigi, i carretti a cavalli portano anche i container dell'acqua per pulire le strade. Felici sono anche quelli dell'associazione francese Haras Nationaux (cioè l'organizzazione nazionale dei cavalli originari) che al meeting annuale dei sindaci francesi ha esposto un modello per un nuovo carretto, l'Hippoville, dotato di freni a disco, fari e sedili asportabili (costo: 11.562 euro optional inclusi.
Luce sul risparmio
In città ci sono luci sempre accese. Sono quelle dei semafori. Sostituire le lampadine usate negli impianti di regolazione del traffico con lampade ad alta efficienza sarebbe un bel passo in avanti. Prima a farla nel mondo è stata Roma. Nella capitale gli ecosemafori sono già una realtà. Con un risparmio dell'88 per cento dei consumi.

Emanuele Perugini
 

 

Il papa è verde ma il patriarca lo è di più

 

L'ultima volta è stata a Loreto il 2 settembre, tra gli ulivi in vista del mare. Predicando a mezzo milione di giovani, Benedetto XVI li ha incitati a "ricreare una forte alleanza tra l'uomo e la terra, prima che sia troppo tardi". Ma l'ecologia compare di rado tra le questioni affrontate da questo papa. Di rado e per brevi cenni. Tra i capi delle Chiese cristiane il capofila della battaglia per la salvezza del pianeta è indiscutibilmente un altro, è il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. Una celebrità del ramo, Al Gore, ex vicepresidente degli Stati Uniti, si è recato da lui in visita e l'ha salutato come 'il patriarca verde'. Con buoni motivi. Bartolomeo I si spende anima e corpo per la 'salvaguardia del creato' da vent'anni, dal primo meeting internazionale di leader religiosi da lui convocato sul tema, nell'isola di Patmos, quella delle visioni dell'Apocalisse. La qualifica di 'patriarca verde' lo accompagna ormai sulla copertina dei suoi libri. L'ultimo, uscito negli Stati Uniti nel 2003, ha per titolo: 'Grazia cosmica e umile preghiera. La visione ecologica del patriarca verde Bartolomeo I'. Un altro libro è imminente.
Ma più che scrivere, Bartolomeo I gira il mondo. Ha cominciato nel 1995 con una crociera nel Mar Egeo che era un simposio galleggiante finalizzato alla causa. E da lì in avanti non s'è più fermato. Nel 1997 ha organizzato un nuovo simposio-crociera nel Mar Nero. Nel 1999 sul Danubio. Nel 2002 nel Mare Adriatico, con tappe negli antichi domini bizantini, a Ravenna, a Venezia. Nel 2003 nel Mar Baltico. Nel 2006 sul Rio delle Amazzoni. Quest'anno, dal 6 al 13 settembre, nei mari della Groenlandia, a bordo di un rompighiaccio. Ai simposi acquatici di Bartolomeo I partecipano esponenti di tutte le religioni e di tutte le fedi in madre natura. Per amor di pace, quando pregano insieme, la regola è il silenzio: si riuniscono in coperta ammirando lo spettacolo delle acque.
Nella tappa di Venezia della crociera del 2002 Bartolomeo I emise una dichiarazione congiunta a nome suo e di Giovanni Paolo II. Da allora, prima di ogni nuovo simposio, il papa invia a Bartolomeo I un messaggio di adesione e designa un proprio rappresentante. Quest'anno, in Groenlandia, l'ambasciatore del papa fu il cardinale americano Theodor McCarrick. L'anno prima, sul Rio delle Amazzoni, era stato il cardinale Roger Etchegaray.
Benedetto XVI, che ha in simpatia Bartolomeo I, delega a lui volentieri l'impegno diretto per la difesa della natura. Personalmente, infatti, papa Joseph Ratzinger diffida dal mescolare la Chiesa cattolica a una cultura ecologista in cui vede serpeggiare mode neopagane. Facciano gli altri. A lui, al papa, preme di più distinguersi che associarsi. Preme di più dire al mondo quelle parole venute dall'alto che il mondo, da solo, non sa pronunciare.

Sandro Magister

 

 

E sulle emissioni l'Europa fa flop

 

Un mercato da 3 mila miliardi di dollari e 25 milioni di posti di lavoro aspettano chi, entro il 2050, saprà sviluppare e vendere tecnologie pulite. Cioè fonti di energia rinnovabile, macchine più efficienti, e quanto altro serva a curare la dipendenza mondiale da petrolio, carbone e metano. Sarà una 'rivoluzione industriale', come ha detto la Commissione europea. Ma a beneficiarne potrebbe non essere l'Europa. Gli obiettivi di taglio delle emissioni europee non servono solo a rallentare l'effetto serra, ma anche, e soprattutto, favorire lo sviluppo e la diffusione interna di nuove tecnologie. Per creare un primato di conoscenze che i paesi europei possono rivendere sul mercato mondiale. Ma secondo il nuovo Piano strategico per la tecnologia energetica (Set-Plan), appena pubblicato dalla Ue, l'Europa sta fallendo questi obiettivi e perdendo la corsa. Di questo passo, finirà per importare tecnologie pulite da paesi come gli Usa, la Cina e l'India, che non hanno ratificato il protocollo di Kyoto.
Un danno e una beffa che la Comunità attribuisce all'inefficienza dei sistemi di incentivi nazionali, oltre che a una scarsa attenzione per la ricerca. Vediamo più da vicino il caso italiano, le cui falle sono esemplari. Per incentivare la produzione di energia rinnovabile, l'Italia si e affidata principalmente al sistema dei Certificati verdi. Questi attestano la produzione di elettricità da fonti rinnovabili e possono essere venduti su un mercato interno. Li acquistano i produttori di elettricità da combustibili fossili, che per legge devono coprire una quota di produzione in modo eco-compatibile. In teoria, il prezzo dei certificati dovrebbe rendere conveniente la produzione di energia rinnovabile, incoraggiando la conversione delle centrali.
Il sistema sembra funzionare in paesi come la Gran Bretagna, che hanno imposto parametri molto rigidi a tutti i produttori di elettricità: oltre il 10 per cento da fonti rinnovabili entro il 2011. In Italia, invece, gli obblighi sono piuttosto modesti: nel 2010 la produzione da fonti rinnovabili dovrà essere poco più del 5 per cento del totale. Che in realtà sarà un 2,5 per cento, perché metà della produzione elettrica è esentata dagli obblighi di legge, grazie a varie 'scappatoie' legali. Anche gli incentivi per migliorare l'efficienza prestano il fianco a diverse critiche. A partire dal sistema dei Certificati bianchi, analogo a quello dei Certificati verdi. Che non sembra favorire a sufficienza l'adozione di tecnologie innovative. "Il 55 per cento dell'obbligo di efficienza per le aziende è soddisfatto semplicemente montando lampadine a fluorescenza", spiega Matteo Leonardi, economista consulente del Wwf. E rincara: "Se la priorità nazionale è davvero l'efficienza energetica, perché la finanziaria non impone che le apparecchiature elettroniche per la pubblica amministrazione siano selezionate in base all'efficienza? Perché non si impone che le scuole, ospedali e caserme da ristrutturare migliorino l'efficienza? Perché non fare lo sgravo sull'Ici solo a chi ha la casa più efficiente? Perché non si tolgono dal mercato le lampadine a incandescenza? Sostituendole tutte, in un anno si risparmierebbe l'equivalente di una centrale nucleare".
"Uno dei problemi maggiori è che, anche quando abbiamo le risorse finanziare, non riusciamo a spenderle", spiega il direttore del Ministero dell'ambiente Corrado Clini. E fa l'esempio del fondo da 600 milioni di euro, istituito dalla finanziaria 2007 per incentivare, in tre anni, interventi nell'industria e nell'edilizia. Ne parla anche la finanziaria 2008, ma finora non ne è stato speso un centesimo. "Gli interventi da fare erano già stati individuati nel 2007, e avrebbero rappresentato un volano importante, producendo investimenti per oltre un miliardo e mezzo di euro", dice Clini: "Ma non siamo ancora riusciti a farli partire, perché le procedure per avviare il fondo non sono state completate". Se anche funzionassero a pieno regime, tutti gli incentivi previsti oggi in Italia non basterebbero nemmeno lontanamente a rispettare gli impegni presi con l'Europa di Kyoto. In qualche misura, è un problema che riguarda la maggior parte dei paesi europei, e il Set-plan vorrebbe risolverlo coordinando gli investimenti pubblici e privati nella ricerca e convogliandoli verso le tecnologie più promettenti. Cioè eolico, solare, biomasse, fissione nucleare, stoccaggio sotterraneo dell'anidride carbonica, e una rete elettrica pan-europea che ridistribuisca su tutto il continente l'energia con essi prodotta.
Ma il documento sorvola sulla questione più spinosa, non spiegando come l'intero piano sarà finanziato. Se ne parlerà a marzo, durante il prossimo Consiglio europeo di primavera.

Daniele Fanelli

 

 

 

Ecobomba Indonesia

 

La corsa a disboscare Sumatra libererà 49 miliardi di tonnellate di CO2. Un disastro senza precedenti. Per produrre olio di palma destinato anche all'Italia

 Riau è un puntino sulla carta geografica, una provincia dell'Indonesia laggiù, in mezzo all'isola di Sumatra. Dovremmo abituarci a familiarizzare con quel nome esotico e non per immaginarci vacanze in un Paradiso. Quando si degrada, il Paradiso perduto diventa minaccia globale, nel Pianeta interdipendente. Se si distrugge, come sta succedendo, la torbiera di Riau, poco più di 4 milioni di ettari, la stessa estensione della Svizzera, si liberano nell'aria 49 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, cioè l'equivalente di emissioni di gas serra di tutta la Terra per un anno. Il dato, clamoroso, è di Greenpeace. Se si teme possa essere di parte, è confermato dagli scienziati indipendenti dell'Ipcc (Comitato intergovernativo sul cambiamento climatico), un organismo delle Nazioni Unite. Cosa possiamo fare qui per quello che succede là? Semplice: ridurre l'uso dell'olio di palma. O non usare olio di palma che arriva dall'Indonesia. Quale connessione c'è tra la torbiera e l'olio di palma è domanda che merita una spiegazione larga.
Premessa. Le foreste che ancora esistono trattengono 500 miliardi di carbonio. Le foreste torbiere, in particolare, hanno la prerogativa di immagazzinare carbonio nel primo passaggio della materia organica verso la fossilizzazione che può portare alla trasformazione in carbone o petrolio. Hanno svolto egregiamente questo lavoro nel corso dei millenni. Ora vengono aggredite. Negli ultimi 50 anni circa 74 milioni di foresta indonesiana sono andati perduti. Il ritmo è cresciuto negli ultimi anni (due milioni ogni 12 mesi, l'equivalente del Belgio). Motivo primo: il commercio di legname pregiato. Solo il motivo primo. Ché il peggio succede dopo. Una volta tagliati a raso gli alberi, il terreno viene drenato per la costruzione di canali di trasporto dei tronchi. Nonostante sia vietato, la biomassa residua viene rimossa col fuoco. Gli incendi servono per diminuire l'acidità del terreno, concimano ed eliminano potenziali parassiti. È in quest'ultima fase che vengono rilasciati i gas serra in una quantità stimata all'anno di 1,8 miliardi di tonnellate: il 4 per cento delle emissioni globali da meno dello 0,1 per cento delle terre emerse. Tanto da issare l'Indonesia al terzo posto tra i Paesi inquinanti dopo due colossi come Stati Uniti e Cina. E senza pagare dazio, perché è considerata una nazione in via di sviluppo e dunque non è obbligata a ridurre la quota di gas serra, secondo i dettami del protocollo di Kyoto.
Ma torniamo alla foresta. Una volta bruciata, è pronta per nuove coltivazioni. Il business vuole che le più convenienti siano quelle di palme da olio. La palma è una pianta generosa, il corrispettivo vegetale del maiale: non si butta niente. L'olio che se ne ricava ha i più svariati usi: entra nei prodotti alimentari, nei cosmetici. I suoi derivati sono ingredienti comuni nei foraggi compositi e vengono utilizzati da poco, sui larga scala, per i biocarburanti. Negli ultimi dieci anni l'uso di olio da palma, nel mondo, è aumentato del 75 per cento. Nell'Unione europea è raddoppiato fino a coprire il 13 per cento del totale. Per l'eterna legge della domanda e dell'offerta l'incentivo per i Paesi produttori è enorme. E così in Indonesia si procede a ritmi forzati: giù gli alberi, via agli incendi, sotto con le piantagioni. Bastano 4-5 anni per avere palme in produzione. Le esportazioni di olio sono cresciute del 244 per cento dal 2000 ad oggi. Stime prudenziali vogliono che la richiesta di olio da palma raddoppierà entro il 2030 e triplicherà entro il 2050. Ammonisce Nichola Stern, ex vicepresidente della Banca mondiale: "La domanda aumenta e le riserve di carbonio delle torbiere indonesiane precipitano. Ciò che stiamo facendo oggi stende un'ombra che oscura il nostro futuro. Le politiche ambientali devono incentrarsi sui rischi dello sviluppo economico e andare oltre quei cambiamenti marginali che sono diventati il pane quotidiano degli economisti". Tradotto: non bastano soluzioni soft, bisogna procedere con l'accetta (se il termine, nel contesto, non stride...) per ridurre i gas.
Paradosso vuole che l'olio di palma fosse stato salutato, agli esordi, come un toccasana per il clima perché, nella versione biocarburante, inquina meno dei combustibili fossili derivati dal petrolio. Utilizzandolo, le aziende hanno diritto ai certificati verdi dell'Unione europea. Non si era tenuto conto dei danni procurati all'origine. Un rapporto dell'Epea (prestigioso istituto internazionale di Amburgo) calcola che, in un periodo temporale di 100 anni, la produzione di biodiesel da olio di palma tratto da una piantagione su torbiera, emette una quantità di anidride carbonica cinque volte superiore di quella delle normali benzine. Ne è consapevole Fabrizio Fabbri, funzionario per l'ambiente della rappresentanza permanente dell'Italia all'Unione europea: "Proprio per questi motivi da tempo ho chiesto di togliere l'olio di palma dal novero dei prodotti che danno diritto ai certificati verdi e di stabilire criteri di sostenibilità ambientale per ogni tipo di produzione".
La politica cerca rimedi. Greenpeace agisce. E lo fa in un momento cruciale. Dal 3 al 14 dicembre si terrà proprio a Bali, in Indonesia, il vertice mondiale sul clima per discutere la seconda fase del Protocollo di Kyoto. Ottima occasione per lanciare un allarme dove la battaglia è cruciale. Individuato nella provincia di Riau il luogo dove più copiosi sono gli incendi della torbiera (e dove esiste la più alta concentrazione di carbonio immagazzinato mai riscontrata al mondo), i suoi attivisti hanno impiantato nell'area un Campo di resistenza forestale. Azioni spettacolari e indagini in loco. Oltre ad abbordaggi di navi che portano in Europa l'olio, come è successo ad esempio questa settimana a Rotterdam. Il tutto ha anche prodotto un rapporto scientifico, dal titolo 'Come ti friggo il clima' in cui punta l'indice contro la "ristretta squadra di giocatori molto potenti che controllano una grossa fetta del mercato". Anzitutto la Cargill, la più grande società privata del mondo, poi la Adm-Kuok-Wilmar, gigante dei biocarburanti, infine la Synergy Drive, società controllata dal governo malese in grande espansione e che minaccia il primato delle altre due. Il rapporto di Greenpeace si concentra anche sui big dell'agroalimentare che usano l'olio di palma indonesiano per prodotti di largo consumo disponibili negli scaffali dei supermercati: Unilevel (margarina Flora), KitKat, Pringles, Philadeplhia, Gilette, Burger King, McCain, per dire delle più note. La richiesta è semplice: comprate altrove la materia prima e badate non sia a danno del pianeta. Poi la piattaforma che sarà presentata al vertice sul clima: fermare la deforestazione in tutto il mondo; stabilire una moratoria sulla conversione agricola delle torbiere; ripristinare le torbiere indonesiane degradate. Risparmio totale: quattro miliardi circa di anidride carbonica l'anno. Non è risolutivo. Però permette al paziente Terra di liberare un po' i polmoni.

Gigi Riva

 

 

Grandi marchi sotto accusa
 

E l'Italia? Le nostre imprese acquistano olio di palma in misura sempre crescente da Nuova Guinea (53 per cento), Indonesia (44) e Malesia (2). Il marchio più popolare è quello della Ferrero che, alle accuse di Greenpeace, ribatte: "Dal 2005, coscienti della problematica, partecipiamo al programma 'Round table on sustainable palm oil' (Rspo) che si muove per una produzione continua e responsabile nel rispetto delle foreste equatoriali". Fa anche notare che la Rspo fu lanciata dal Wwf. A Greenpeace non basta: "I criteri stabiliti da Rspo non vietano la conversione di foreste in piantagioni di palme". Merloni Progetti viene chiamato in causa per i progetti di biodiesel con la partecipata Nusantara di Sumatra. Ribatte l'ad Marco Marchioni: "Abbiamo quote minime di partecipazione, perché ce lo chiedono, a garanzia, i nostri partner. Noi ci limitiamo a progettare impianti. E stiamo studiando, sempre più, l'utilizzo di oli riciclati o provenienti da grassi animali". Ancora Greenpeace: "Dai documenti ufficiali risulta che Merloni ha un ruolo, oltre che nella progettazione, anche nella gestione degli impianti".

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PETROLIO ADDIO

 

L'Arabia Saudita è già arrivata al massimo della produzione. E la scoperta di nuovi grandi giacimenti è sempre più rara. Secondo uno dei massimi analisti ambientali, è la fine di un'era durata oltre un secolo  - colloquio con LESTER BROWN

 

Per il petrolio il 2007 è l'anno dei record: il barile viaggia sui 100 dollari e nonostante ciò, per la prima volta nella storia, la produzione di greggio cala. Gli 84,8 milioni di barili al giorno del 2006 sono diventati 84,6 nei primi dieci mesi dell'anno. Sembra un'inezia statistica, ma per gli esperti, abituati alla crescita continua della produzione, è uno choc. Molti si chiedono se la produzione di petrolio sia arrivata ormai al suo picco storico.
È quanto sostiene da alcuni anni Lester Brown, che trent'anni fa fondò il WorldWatch Institute e oggi dirige l'Earth Policy Institute a Washington. Fino a ieri la sua tesi non veniva presa sul serio dall'industria energetica e dalle grandi istituzioni dell'economia mondiale. Ma ora l'idea che siamo arrivati a una svolta si fa strada anche tra gli esperti. Nel corso di una conferenza dell'industria petrolifera, che si è svolta il 31 ottobre a Londra, il presidente della ConocoPhilips, James Mulva, e il capo della francese Total, Christophe de Margerie, hanno entrambi affermato che la crescita del petrolio è arrivata al capolinea, e in ogni caso non potrà superare i 100 milioni di barili al giorno. Il numero uno dell'industria petrolifera dello Stato libico si è dichiarato d'accordo. La ragione di tanto pessimismo? I grandi giacimenti che hanno fornito il grosso della produzione di petrolio sono stati scoperti negli anni Sessanta e adesso rendono sempre meno. Mentre la scoperta di pozzi di grandi dimensioni è sempre più rara.
Brown ha recentemente scritto un libro ('Plan B 3.0, Mobilizing to Save Civilization') nel quale lancia l'allarme e propone un progetto per superare la crisi prossima ventura. Lo abbiamo intervistato.
La fine dell'era petrolio è già stata annunciata altre volte. Che cosa c'è di diverso oggi?
"Diverse cose sono cambiate. Primo: il prezzo del barile è intorno ai 100 dollari. Secondo: per la prima volta è diminuita la produzione di petrolio dell'Arabia Saudita. Non sappiamo con certezza se sia accaduto per ragioni politiche o geologiche, ma se la produzione saudita sta davvero declinando, come io credo, allora l'economia mondiale non sarà più quella di ieri. Terzo: i 20 maggiori giacimenti petroliferi sono stati tutti scoperti tra il 1914 e il 1979. Sono quasi trent'anni che non se ne scopre più uno di grandi dimensioni: l'unico è il Kashagan, nel Kazakhstan, che pur essendo enorme non rientra nei primi 20 in classifica".
E i vecchi giacimenti si stanno esaurendo?
"Quelli del mare del Nord sono arrivati al picco della produzione nel '99 e ora rendono il 50 per cento in meno. Quelli norvegesi hanno toccato il massimo nel 2000, ora sono scesi del 20 per cento. Su questi due abbiamo dati trasparenti, mentre sul Medio Oriente si sa poco".
L'Eia, l'Energy Information Administration, che è un organo del governo Usa, prevede che la produzione mondiale di petrolio salirà a 118 milioni di barili al giorno nel 2030. Perché previsioni ottimistiche così diverse dalle sue?
"L'Eia usa dati prodotti dagli economisti, i quali si limitano a prevedere quale sarà la domanda. Danno per scontato che l'offerta soddisferà la domanda perché così è sempre stato. A prevedere che il petrolio è arrivato al massimo della produzione sono in parecchi, ma sono quasi tutti geologi. Con un'eccezione: Matt Simmons, un banchiere d'affari texano specializzato nel business del petrolio. Ha pubblicato un libro che prevede esattamente quello che sta accadendo".
Come ha fatto?
"Siccome i sauditi sono molto restii a fornire informazioni, lui è andato a leggersi 123 articoli scritti da diversi geologi che hanno studiato i giacimenti di quell'area. È arrivato alla conclusione che la produzione di petrolio in Arabia Saudita comincerà a declinare. Pare che abbia ragione".
Il presidente di Exxon-Mobil, Rex Tillerson, sostiene che, se le aziende petrolifere avessero più facile accesso alle riserve, i prezzi scenderebbero. Lei cosa ne pensa?
"Tillerson ha ragione. Ma ci sono alcune cose da precisare. I paesi produttori di petrolio sono in preda alla sindrome della scarsità. Sanno che devono far durare le loro scorte il più a lungo possibile, e non accelerarne l'esaurimento. Hanno un punto di vista ben diverso rispetto alle società petrolifere, che invece vogliono massimizzare i profitti a breve scadenza, senza curarsi delle prossime generazioni. È vero che le compagnie petrolifere, in particolare la Exxon, hanno sviluppato tecnologie che consentono di estrarre più petrolio. Ma dubito che oggi i produttori di petrolio vogliano affidare i propri pozzi a queste aziende".
Ha mai provato a calcolare fino a dove potrebbe salire il prezzo del barile se la produzione di petrolio cominciasse a calare?
"Nessuno lo sa, ma penso che potrebbe toccare facilmente i 200 dollari, un prezzo che distruggerebbe intere economie. Oggi il grano è legato al petrolio. Quando il prezzo del barile aumenta, sale anche quello del grano. Il mercato del cibo è sempre più legato a quello dell'energia. È una situazione del tutto nuova che molti economisti non hanno ancora messo a fuoco: l'aumento dei prezzi dipende dalla pressione del mercato energetico".
Se la produzione di petrolio cominciasse a calare, quali sono i settori industriali più vulnerabili?
"Il trasporto aereo è in prima fila, perché il combustibile è una componente importante dei suoi costi industriali. Un'altra industria sensibile è quella alimentare. Negli Stati Uniti gran parte della verdura cresce in California ed è consumata nel Nord-Est: deve attraversare in camion tutto il Paese. Il supermercato vicino a casa mia d'inverno compra la frutta in Cile. Ma se i prezzi del petrolio si impennano, queste abitudini diventeranno sempre meno economiche. In futuro mangeremo alimenti più legati alle stagioni e al territorio".
Ci spieghi che cosa si potrebbe fare subito negli Stati Uniti.
"Ho lanciato una campagna per il risparmio energetico. Gli Stati Uniti consumano più benzina, da soli, dei 20 paesi messi insieme che la seguono nella classifica dei consumi. In America abbiamo il 30 per cento delle automobili del mondo, e bruciamo il 40 per cento della benzina. C'è un enorme spazio per aumentare l'efficienza del sistema Usa e per ristrutturare il trasporto urbano".
Più auto elettriche?
"Sta emergendo la possibilità di usare auto ibride: la Toyota Prius è un buon esempio. Ha una batteria molto potente. Aggiungendone una seconda, con la possibilità di ricaricarla, già oggi si potrebbero compiere le brevi distanze andando a elettricità. Se è vero che siamo arrivati al picco della produzione di petrolio, domani il mondo sarà ben diverso da quello previsto dalla World Bank e dal Fondo monetario".
Si spieghi meglio...
"Tutti prevedevano una grande crescita economica, e la World Bank immaginava che l'economia mondiale sarebbe raddoppiata o triplicata. Non credo che sarà così. In futuro ci potrà anche essere una crescita, ma comporterà un grande cambiamento nell'economia globale, nei consumi energetici, nei trasporti. Gli Stati Uniti dovranno spostare gli investimenti dalle strade alle ferrovie. Resta da capire se, a causa di questo choc, la popolazione mondiale continuerà a crescere".

ENRICO PEDEMONTE