ANNO LVI - NUMERO 429
il Mulino
1/2007
L’ITALIA DEI
LAVORI
di
Antonio
Tamburrino
RIVISTA
BIMESTRALE DI
CULTURA E
DI POLITICA
L’Italia dei Lavori
Mentre
comincia ad affermarsi l’idea di un modello di sviluppo radicalmente nuovo, che
rifiuta alla base il nesso tra sviluppo e uso di risorse e mette in discussione
la stessa necessità di infrastrutture materiali sempre più grandi, anche sul
fronte delle grandi opere il governo deve fare i conti con l’eredità lasciata
dalla precedente legislatura. Ma non sembra distaccarsene in maniera
significativa.
Quali novità ha portato il Governo Prodi
nella politica delle infrastrutture? Il precedente esecutivo aveva esordito con
idee chiare: per far ripartire l’Italia, bisognava realizzare subito strade,
autostrade, tunnel, porti, ferrovie. La “Legge-Obiettivo” aveva introdotto
poteri speciali: abolita la programmazione, si passava direttamente alla
Individuazione delle opere da realizzare; e poi subito via ai cantieri, senza
più perdite di tempo con le amministrazioni locali, con le associazioni
ambientaliste, con i comitati di cittadini.
Obiettivi: intanto un
balzo immediato dell’1 ÷ 2% del PIL e poi, in prospettiva, un Paese sempre più
brulicante di TIR, di auto, di treni, di navi. L’opera simbolo era il Ponte di
Messina, un progetto di ambizioni planetarie. L’opposizione aveva bocciato
tutta la strategia berlusconiana, ritenendola verticistica nel metodo
decisionale, e ambientalmente non sostenibile nella sostanza.
Dal nuovo Governo ci
si aspettava un completo ribaltone, a partire dall’abrogazione della
“Legge-Obiettivo”. E invece, finora, non c’è stata la minima soluzione di
continuità. Anzi ci si sta adoperando per fare di meglio e di più. Per la
verità, all’esordio c’era stata una decisione di forte rottura: la cancellazione
del Ponte di Messina. Ma la sua interpretazione è sembrata subito ambigua.
Infatti né la maggioranza aveva espresso manifestazioni di giubilo, né
l’opposizione aveva organizzato barricate, nonostante si trattasse di una
decisione storica per entrambi gli schieramenti. La mancata reazione di
Berlusconi poteva avere una spiegazione. Aveva davvero creduto di poter
realizzare il mito del “ponte sospeso più lungo del pianeta”, per consegnare il
suo nome alla storia. Ma poi aveva dovuto prendere atto che nel mondo non c’era
né una banca né un’impresa disposta a rischiare un centesimo su quel progetto.
Per cui la caduta del mito per avversa mano politica doveva essere stata per
lui un sollievo.
Invece la mancata
esultanza dei partiti del “No Ponte” sembrava ingiustificata. Intanto, già era
sembrata eccessiva la fretta del Governo nel cancellare un progetto, che pure
aveva diversi fautori anche nella stessa maggioranza, senza nemmeno aver
esplorato la possibilità di una soluzione diversa. Negli ambienti internazionali
era opinione diffusa che, mentre il “Ponte Berlusconi” era tanto ambizioso
quanto tecnicamente ed economicamente improponibile, esistevano altre
soluzioni, tipo il ponte di Corinto, che avrebbero potuto risolvere in maniera
brillante, economica ed ambientalmente sostenibile la condivisibile esigenza di
realizzare un collegamento stabile fra la Sicilia e la Calabria.
Purtroppo, il tragico
incidente dello speronamento del traghetto dello scorso gennaio ha reso
evidente che, almeno dal punto di vista della sicurezza, il non fare nulla non
è certo la migliore soluzione. Come pure è rimasta del tutto inesplorata
l’ipotesi che un collegamento stabile non sia l’anello strutturale destinato
alle grandi movimentazioni di merci su tratte internazionali, ma sia l’elemento
urbanistico innovatore per avviare un nuovo tipo di conurbazione fra tutte le
città dello Stretto; con straordinarie prospettive per una nuova qualità della
vita. E allora perché il Governo, tra il fare e il non fare, non aveva voluto
esplorare la via del fare meglio?
Il
“Paese – Piattaforma”
Anche Prodi sapeva bene cosa fare, pur
se, sornionamente, aveva evitato di sbandierarlo subito a “Porta a Porta”. Da
Presidente della Commissione Europea, aveva preso parte alla stesura
dell’Agenda di Lisbona del 2000 per lo sviluppo e la crescita dell’occupazione.
Per realizzarne gli obiettivi, aveva poi, sempre da Presidente, approvato la
pubblicazione del “Libro Bianco” del 2001. In esso si stabiliva la centralità
della politica dei trasporti e se ne disegnavano gli sviluppi strategici a
livello continentale.
Per quanto riguarda le
dinamiche della domanda, per il 2010 si puntava ad un incremento del 50% per le
merci, e del 35% per i passeggeri, con un tasso di crescita medio annuo
rispettivamente del 4% e del 3% circa.
Quei valori molto elevati erano giustificati da un’idea di sviluppo
basata essenzialmente nella crescita della produzione.
Si è realizzata questa
idea? A giugno 2006 l’Unione Europea ha cercato una risposta con il rapporto di
medio termine. Ebbene, mentre l’aumento del PIL si è mantenuto entro le
aspettative, la domanda di trasporto è rimasta clamorosamente al di sotto delle
previsioni. Infatti, per le merci l’aumento non è andato oltre il 2,5%, mentre
per i passeggeri non è neppure arrivato all’1,5%, con valori generalmente più
contenuti per i Paesi più avanzati. Questi scostamenti sono estremamente
importanti perché forniscono le prime conferme, a livello di Unione Europea, di
un modello di sviluppo radicalmente nuovo. Esso, già da tempo emerso, studiato
e politicamente incoraggiato in alcuni Paesi del Nord, ha come base
rivoluzionaria il “de-linking”, cioè la disconnessione fra sviluppo e uso di
risorse. Le conseguenze possono essere
tali da ribaltare convinzioni fino a ieri ritenute granitiche, a cominciare
dalla necessità di costruire infrastrutture materiali sempre più grandi e
sempre più capillari su tutto il territorio. Rientrato in Italia, Prodi ha
portato nel suo bagaglio il “Libro Bianco”, anche se poi forse non ha fatto in
tempo a leggerne la revisione del 2006.
Dando così per
definitivamente acquisita la necessità dell’Europa di dotarsi di grandi
infrastrutture, si è ritenuto che l’Italia potesse trarne il massimo beneficio,
attrezzandosi per assumere il ruolo di “piattaforma logistica
euro-mediterranea”. E cioè: premesso che la Cina, l’India e le altre potenze
emergenti dell’estremo oriente esportano quantità crescenti di merci verso il
mercato europeo, e premesso che i flussi marittimi ora confluiscono
praticamente tutti nei porti del Mare del Nord, la nostra missione storica deve
essere quella di invertire la situazione: dobbiamo ampliare e attrezzare i
nostri porti, soprattutto quelli del Sud, per le grandi navi containers; e
costruire strade e ferrovie, per distribuire le merci nel Nord Italia e nel
Centro Europa. Il sogno del nostro Paese sarà quello di diventare il crocevia
dei traffici fra l’Oriente e l’Occidente.
Per realizzarlo,
l’Italia ha già firmato un accordo strategico con l’Egitto e la Cina: si
amplierà il canale di Suez, e poi i 2/5 del traffico cinese per l’Europa, che
oggi circumnaviga l’Africa perché le navi sono troppo grandi, finiranno
direttamente nel porto di Gioia Tauro, da cui si dirameranno grandi direttrici
di traffico nazionale ed internazionale. Lì ci sarà bisogno di attrezzare un
retroterra immenso. La finanziaria 2007 vi ha destinato un apposito capitolo di
spesa.
Definita così la grande strategia, non è
rimasto che passare all’individuazione delle singole opere.
L’Italia
dei Lavori
Il ministro delle infrastrutture Antonio
Di Pietro è stato molto attivo. Nel Documento di Programmazione Economica e
Finanziaria 2007 ha infatti previsto un “Allegato infrastrutturale”, che non
contiene altro se non l’elenco delle opere già approvate dal precedente
Governo. Per Di Pietro le opere non vanno viste né da destra né da sinistra: se
sono utili vanno fatte e basta. Dalla sua analisi risulta che tutte le opere
approvate da Berlusconi siano utili; ma non sufficienti. E così il ministro,
dopo appena sei mesi di governo, vara un nuovo e più grande piano delle grandi
opere (www.infrastrutturetrasporti.it).
L’importo è di 200 miliardi di euro, di cui 60 da trovare subito. Intanto la
finanziaria 2007 ne stanzia 25.3, con un aumento di ben il 40% rispetto
all’anno precedente. Si tratta di un piano davvero imponente che, a consuntivo,
inghiottirà non meno di 300÷400 miliardi, a fronte dei 125 miliardi previsti da
Berlusconi. Fatto il piano, il ministro si è preoccupato della sua
realizzazione. Per prima cosa, essendo le strade prioritarie, con un rapido
colpo di mano, ha rafforzato l’ANAS, con un ricambio generazionale. Al vertice
ora c’è il Pietro Ciucci, già il braccio destro di Berlusconi nella vittoriosa
battaglia del Ponte, mentre alcuni membri del consiglio di amministrazione
risultano già iscritti all’“Italia dei Valori”.
Si va così costruendo,
con ambizioni alte e con decisioni concrete, l’“Italia dei Lavori”: che cosa
c’è di diverso rispetto alla berlusconiana “Italia del fare”? Molti più
cantieri. E allora, perchè il “No” al Ponte? Nessun “No”, precisa il ministro
Di Pietro, qualcuno ha capito “cancellazione”, ma si trattava in realtà di una
“sospensione”. Appena verranno recuperati i soldi il Ponte verrà costruito,
così come è stato progettato. E Prodi è d’accordo, avendolo già approvato
quando era Presidente della Commissione Europea” (va ricordato che il Ponte, in
quel periodo, venne infatti inserito come opera strategica nel Corridoio
Europeo n. 1, da Palermo a Berlino). Viene dunque da chiedersi se non sia stato
frutto di un malinteso l’opposizione frontale alla strategia berlusconiana. Ma
su un punto le posizioni dei due schieramenti politici restano ideologicamente
inconciliabili: il modo di acquisire il consenso dei cittadini.
Un
consenso ragionevole
Di Pietro afferma: mai più la polizia in
Val di Susa, bisogna dialogare con le istituzioni periferiche e le popolazioni
locali, con gli ambientalisti finchè la ragione non prevalga. Ma quali sono i
percorsi della ragione? In Val di Susa effettivamente il Governo avvia subito
un tavolo di confronto. Senonchè poi il ministro, parallelamente, al ministero
porta avanti l’iter di approvazione del vecchio progetto. E le richieste dei
valligiani? E le proposte alternative? Inevitabilmente, si crea un po’ di
confusione. Ma poi il ministro prende in mano la situazione e detta chiaramente
la linea da seguire. In occasione del vertice bilaterale del 24 novembre 2006 a
Lucca, dove fra Italia e Francia si ufficializza la domanda alla UE di
co-finanziamento della Torino-Lione, a chi gli fa notare che le questioni
locali sono ancora tutte aperte, il ministro chiarisce che “la TAV si farà
anche se gli amministratori locali alla fine non saranno d’accordo. La ragione,
che alla fine tutti devono capire, è che altrimenti per noi non c’è futuro in
Europa”.
Si capisce così
definitivamente che la nuova apertura del Governo verso la partecipazione dei
cittadini consiste nel far emergere un “consenso ragionevole”. Anche nella
questione del Mose, c’è stata questa apertura. Il sindaco Cacciari e molti
altri cittadini sostengono da tempo che, per salvare Venezia, al posto del Mose, ci sono altre alternative che sono
molto più intelligenti, economiche, efficaci e compatibili con l’ambiente. Ebbene
Di Pietro effettivamente porta queste alternative al Ministero, e le fa
esaminare dai suoi tecnici. I quali, essendo gli stessi che finora hanno sempre
sostenuto il Mose, preferiscono non contraddirsi e, anzi, aggiungono che,
poichè i lavori sono già iniziati, anche se vi fossero valide alternative, non
varrebbe la pena di ripensarci, per non perdere tempo. Si fissa così un buon
precedente per evitare che, anche per altri casi controversi, le cose vadano
troppo per le lunghe.
Ma talvolta, per la
fretta, il nuovo metodo consensuale non viene applicato integralmente. Si veda
la questione del “Corridoio Tirrenico”. Il precedente governatore del Lazio,
Storace, pur di realizzare un’autostrada, dopo diversi tentativi andati a
vuoto, non aveva trovato altra soluzione se non quello di localizzarla in un
tracciato perfettamente adiacente alla Pontina. Senonchè, siccome questa strada
non si può cancellare, ma va comunque riammodernata con standard da
superstrada, si era arrivati al paradosso di ipotizzare da Roma a Latina un
Corridoio stradale a 8 corsie, con capacità di traffico anche maggiori di
quelle dell’autostrada Roma-Napoli. Accogliendo le vaste e vivaci proteste di
ambientalisti, agricoltori e comitati di cittadini contro l’inutile autostrada,
l’attuale governatore Marrazzo, in campagna elettorale, si era impegnato, una
volta eletto, a cancellare subito l’oscena proposta. Ma poi, come dice Di
Pietro, è emerso che le grandi opere anche se vengono da destra possono
benissimo proseguire a sinistra. E così prima che i contestatori si rendano
conto dell’’inversione di rotta ed chiedano un confronto, Marrazzo e Di Pietro, ringraziando Storace,
decidono di proseguire per la retta via.
Ma qual è il cemento che garantisce
questa granitica continuità alla nostra politica infrastrutturale?
L’ingegneria
giurassica
Anche il Governo attuale sostiene che è
urgente fare più infrastrutture, per competere in Europa. Purtroppo non ci si
accorge che non è più solo la quantità, ma ora è sempre più la qualità a fare
la differenza. Sono i costi, i tempi, la funzionalità delle nostre opere che
stanno creando un “caso Italia”. Nelle costruzioni ferroviarie, i nostri costi
sono costantemente oltre il doppio di quelli di Francia, Spagna, Germania. La
prima spiegazione, ma non l’unica, è la commistione fra affari e politica. Fu
provato nella stagione di Mani pulite. La “Legge Merloni” aveva cercato di
voltare pagina, individuando con più chiarezza i ruoli e le responsabilità di
politici, amministratori, dirigenti pubblici, imprese. Ma è durata poco. Il
primo dietro-front si è avuto proprio con la “Legge-Obiettivo” che, per le
grandi opere, anziché contrastare, ha istituzionalizzato il rapporto diretto
fra i vertici politici e le grandi imprese. Poi il Codice degli Appalti, nella
sua scia, ha completato la controriforma per tutte le opere pubbliche, anche le
più modeste e periferiche. Così un’impresa oggi può vincere un appalto sulla
base di un progetto preliminare, alle volte molto approssimativo e con ribassi
spesso scandalosi. Ma tutto ciò non pregiudica nulla, perché poi è la stessa
impresa a sviluppare il progetto esecutivo, cioè a decidere ciò che realmente
si deve costruire ed a stabilire come e quando lo si deve fare. Ovviamente, con
delle contropartite politiche.
Non si spiega
altrimenti come un numero impressionante di gare viene assegnato con un ribasso
superiore al 30%. In questi casi dovrebbe essere obbligatorio individuare
responsabilità precise: o l’ingegnere progettista risulterà incompetente o
l’impresa realizzerà un’opera di qualità scadente. Purtroppo c’è una terza
ipotesi, quella sopra esposta, che è quella che più spesso si avvicina alla
realtà. Tanto per farsi un’idea, il costo della TAV è lievitato, per ora, del
500%, passando da 12 a 60 miliardi di euro. E, in oltre 15 anni, da quando la
TAV è partita, non c’è stato alcun ministro delle Infrastrutture, compreso
l’attuale, che abbia la curiosità di sapere almeno se qualche progettista non
era stato all’altezza del compito.
La lievitazione dei
costi trascina con sé inevitabilmente l’allungamento dei tempi. La Corte dei
Conti ha documentato che la “Legge-Obiettivo” ha peggiorato ulteriormente la
situazione. Di fatto, la fine dei lavori è spesso imprevedibile. In queste
condizioni, la gestione degli appalti pubblici richiede principalmente capacità di relazioni politiche. Le grandi
imprese straniere, che puntano sull’efficienza organizzativa e sull’innovazione
tecnologica, se ne tengono alla larga, lasciandoci sempre più attardati nel
nostro provincialismo.
Di conseguenza le
nostre grandi opere sembrano appartenere all’epoca giurassica: sono enormi
nelle dimensioni, per metterci più cemento, più ferro, più movimento di terra,
ma sono molto modeste nel contenuto tecnologico, che non preoccupa nessuno.
Insomma costruiamo archeologia infrastrutturale, dalla TAV al Mose, dal Ponte
di Messina alla Metro C di Roma.
Una volta che al
Ministero delle Infrastrutture è arrivato Di Pietro, cioè l’uomo di “Mani
pulite”, ci si aspettava almeno la rivoluzione. Non è successo assolutamente
nulla. E’ il segno che non è solo questione di uomini né di schieramenti
politici. E’ quindi indispensabile un confronto con l’Europa, ma su basi del
tutto diverse.
Le
istituzioni partecipative
In Italia con la sindrome “Nimby” (Not in
My Backyard, non nel mio giardino) si attribuisce all’integralismo ecologista
ed all’egoismo localistico la sola e grave responsabilità del torpore
improduttivo in cui versa il Paese. Per debellare questa sindrome si è fatto
ricorso alla legislazione emergenziale. Ma dopo anni di cura la situazione,
anziché migliorare, è peggiorata. E’ la
cura giusta?
In alcuni Paesi del
Nord Europa, si è seguito un approccio diverso. Con risultati molto positivi.
Fra la Danimarca e la Svezia è stato realizzato un ponte 5 volte più lungo di
quello di Messina, in 5 anni di tempo e con piena condivisione delle
popolazioni locali e degli ambientalisti. La Germania ha realizzato un numero
tale di inceneritori da assorbire anche le emergenze della Campania, con buoni
profitti e senza proteste di piazza. La Francia sta realizzando il raddoppio
del porto di Le Havre, che è il 5° d’Europa. Esso è ubicato alla foce della
Senna, in un contesto ambientalmente molto delicato. Il progetto che comprende
anche la ri-localizzazione di un intero ecosistema di area umida, è stato
varato in tempi brevi e con unanime condivisione.
Il diverso punto di
partenza è stato che la “sindrome Nimby” non è stata considerata un male in sé,
ma è stata percepita come segnale che qualcosa di nuovo, e di molto importante,
stava accadendo: la volontà e la capacità dei cittadini di partecipare ai
processi decisionali. Di conseguenza le istituzioni non si sono arroccate, come
da noi, ma sono andate incontro alla società, lungo due direttrici: a monte,
aprendo la pianificazione alla società civile; a valle, strutturando un
confronto costruttivo con i cittadini. Nella pianificazione è stata data piena
ospitalità alla scienza, alla tecnica, all’economia, alla finanza. Sono stati
costruiti obiettivi più ambiziosi e allo
stesso tempo più realistici.
La Svezia ha deciso di
liberarsi completamente dalla schiavitù del petrolio nel 2020. Col sostanziale
contributo delle fabbriche automobilistiche, che stanno producendo ormai solo
auto ibride. Da noi la pianificazione rimane un puro adempimento burocratico.
La conseguenza è che per pianificare la nostra alta velocità ferroviaria non
abbiamo saputo fare altro che importare la brutta copia di quella francese.
Oltralpe vi si era impegnata una generazione di tecnici e di ricercatori. Per
il problema dei rifiuti abbiamo fatto ancora meno. Non siamo neppure andati in
Germania a studiare l’innovazione del “Dual Systeme”, cioè la separazione dei
rifiuti alimentari da quelli industriali, con la conseguente gestione di
quest’ultimi a totale carico dei
produttori. Questa è stata la chiave di
volta che, coinvolgendo il mondo delle imprese, ha rivoluzionato tutto il
settore.
L’apertura delle
istituzioni a valle è stata, se possibile, ancora più feconda. La vera chiave
di volta consiste nella presentazione al pubblico del progetto, in maniera “non
tecnica”. Inoltre ogni progetto è sistematicamente confrontato con diverse
soluzioni alternative. In tempi più recenti, è stata introdotta anche l’
“opzione zero”, cioè l’alternativa di non fare nulla.
In questo modo qualsiasi cittadino,
qualunque sia la sua professione ed il suo livello culturale, può realmente
partecipare alle scelte delle amministrazioni, fino alla decisione radicale di
azzerare il progetto proposto.
Per avere un’idea di quanto invece noi siamo
lontani da questa mentalità, basti pensare che se qualche cittadino della Val
di Susa osasse chiedere di rimettere in discussione l’utilità del Corridoio
Lisbona-Kiev (che pure è solo una modesta favola politica) non verrebbe
ricevuto neppure dall’usciere del Ministero.
Questa evoluzione
delle istituzioni, da impositive a partecipative, dopo essersi consolidata in
alcuni Paesi nordici, poi ha cominciato a permeare anche la legislazione
dell’Unione Europea. Noi siamo andati esattamente nella direzione contraria,
subendo una serie crescente di procedure di infrazioni.
La trasformazione delle istituzioni è
solo la punta dell’iceberg di un’evoluzione che sta trasformando la società e
il modello di sviluppo dei Paesi più avanzati.
Quali sono le più recenti innovazioni nel
nostro Paese?
Crescere,
crescere, crescere
Finora il Governo non ha potuto ancora
avviare la realizzazione del suo programma politico, perché è stato totalmente
impegnato a riportare i conti pubblici entro i parametri europei. Ma ora, finalmente,
il Presidente del Consiglio, ha tracciato la rotta di legislatura ed ha fissato
tre priorità: crescere, crescere, crescere. Ma per crescere bisogna prima
costruire nuove e più grandi infrastrutture materiali, che ora quindi diventano
le priorità nazionali. L’obiettivo finale è quello di aiutare chi è rimasto
indietro. Su questa sorta di dovere etico non può esserci alcun dubbio, tanto
più che l’Italia ha preso degli specifici impegni a livello comunitario.
Infatti l’Agenda di Lisbona del 2000 ha legato tutti i Paesi membri
all’obiettivo epocale di sradicare la povertà e di cancellare l’emarginazione
sociale. E in effetti molto si sta
facendo in questa direzione.
Il 16 ottobre 2006 a
Tampere, in Finlandia, si è tenuta la “5^ Conferenza sulla povertà e sulla
esclusione sociale”, per fare il punto della situazione, esaminando come i
singoli Paesi si stanno organizzando, quanto è già stato fatto e quanto resta
ancora da fare. Per la prima volta, per misurare la povertà, non si è tenuto
conto del solo parametro monetario consistente nella soglia del 60% del reddito
medio, ma si sono presi in considerazione anche tutti quei beni e servizi e
quei rapporti sociali che permettono di considerare un essere vivente come una
persona. Ebbene, con questi criteri, il 16% della popolazione UE-25 non
raggiunge la soglia minima, con un’oscillazione che tende ad abbassarsi anche
sotto l’8% per i Paesi del Nord e che supera anche il 20% per i Paesi del
Mediterraneo. Il dato più confortante è che la percentuale tende a diminuire al
crescere della ricchezza complessiva.
Ma ciò che davvero
infonde grande fiducia è che alcuni Paesi hanno preso con tale determinazione
l’impegno di Lisbona che già cominciano a fissare le date di conseguimento
degli obiettivi finali. Alcuni traguardi potranno essere raggiunti a partire
dal 2015.
Per fare solo un
esempio, la Francia, proprio di recente, ai due diritti costituzionali
esistenti, quello della sanità e quello dell’istruzione, ha aggiunto un terzo
diritto, quello dell’abitazione. Quest’ultimo diritto sarà goduto dalla
totalità dei cittadini francesi entro il 2012, mentre le situazioni più urgenti
saranno risolte già dal prossimo anno. Lo studio U.E. non fornisce l’attuale
posizione dell’Italia, e, tantomeno, dà conto dei suoi programmi per
raggiungere gli obiettivi finali, perché il nostro Paese non ha fornito alcun
dato e non ha esposto alcun piano.
Dunque il triplice
obiettivo di Prodi è pienamente condivisibile ma al tempo stesso poco
credibile, perché non è sostenuto da alcuna programmazione realistica. Il fatto
è che la crescita, proprio perché serve ad adempiere ad un impegno etico
imprescindibile e non rinviabile, più si protrae nel tempo più diventa
inefficace. Pertanto bisogna annunziare non l’inizio, ma la fine della crescita.
E, per il nostro Paese, considerando il livello di ricchezza nazionale e le
ulteriori potenzialità di sviluppo, l’esaurimento della crescita potrà essere
collocato entro un paio di decenni, al massimo. Se così sarà, non avrà più
senso mettere in cantiere grandi infrastrutture che entreranno in esercizio fra
15÷20 anni, perché, per quell’epoca, le esigenze della società saranno di
natura del tutto diversa. Per dare un’occhiata a come sarà il mondo dopo la
crescita, è interessante andare a vedere che cosa si pensa dell’evoluzione dei
trasporti nel Regno Unito.
Il
“Rapporto Eddington”
Da tempo il Governo del Regno Unito ha
messo al lavoro un gruppo di qualificati esperti interdisciplinari, guidato da
Sir. Rod Eddington. A dicembre 2006 è stato presentato il rapporto finale: “The
Eddington Transport Study-The case for action: advice to Governement”. E’
interessante leggerlo, perché così come i Romani avevano inventato la mobilità,
gli Inglesi hanno provveduto alla sua meccanizzazione. Inoltre l’eccentricità del
Regno Unito rispetto all’Europa continentale non è dissimile per molti versi a
quello dell’Italia. Pertanto il “Rapporto Eddington” anticipa molte prospettive
con le quali l’Italia prima o poi dovrà pur misurarsi.
Per andare alla base
dei problemi, conviene guardare ai dati relativi ai nessi fra sviluppo
economico e crescita dei trasporti nel Regno Unito dal 1980 al 2005. La
crescita economica, contrariamente all’Italia, è stata di tutto rispetto,
perché in 25 anni è lievitata di oltre l’80%, con un valore medio annuo intorno
al 3%. Nello stesso periodo i trasporti si sono comportati ben diversamente:
per i passeggeri, l’aumento si è fermato
al 60%; per le merci, non è arrivato neppure al 40%, cioè ad un valore che è
appena la metà del PIL. Il dato che ha invece seguitato a crescere
costantemente è quello dei veicoli-chilometro. Sembra un dato incorente. In
realtà è di grande valore perché sta ad indicare che i trasporti di massa
stanno sempre più lasciando il posto ai trasporti individuali.
Tuttavia l’indicazione
decisiva è un’altra ed è quella che mostra che il rapporto fra la crescita
economica e quella dei trasporti, lungi dall’essere una costante, è una
variabile molto legata al tempo. Infatti per i primi anni Ottanta, la crescita
economica trascina rigidamente con se i trasporti, con un rapporto di circa 1 a
1. Ma già alla fine di questo decennio, tale rapporto comincia ad indebolirsi.
Poi, a cavallo degli anni Novanta, la divaricazione si fa sempre più evidente.
La svolta decisiva si ha a cavallo del 2000: la crescita economica prosegue
autonomamente a ritmo sostenuto, ma l’incremento dei trasporti si arresta
definitivamente. E’ l’emergere de vero e proprio “de-linking”, vale a dire di
una fase in cui l’economia prosegue nella sua crescita, slegandosi dagli
aspetti materiali che prima la caratterizzavano.
Confesso di aver letto
con piacere questi dati perché essi confermano, con valori aggiornatissimi,
l’analisi da me proposta in un precedente intervento su questa stessa rivista
(Il Mulino 1/2006), sulla base di dati al 2002, aggregati a livello europeo.
Eravamo allora davvero allo stato nascente del de-linking. Quindi ci poteva
essere il rischio di esaminare il fenomeno con la lente dell’ottimismo. Ma,
tenendo presente che anche il già citato rapporto di medio termine della UE sui
trasporti su cui si era basata quell’analisi, ritengo che ora si possa
decisamente confermare che la fase di de-linking ha ormai messo radici in
Europa.
Tornando al Regno
Unito, il “rapporto Eddington” traccia le linee-guida per il futuro. In
sintesi: un cambiamento più verso la qualità che verso la quantità, più verso
le infrastrutture immateriali che quelle materiali. E cioè, nessuna urgenza e
nessuna priorità per i grand projects; viceversa, un forte impulso all’efficienza,
attraverso strumentazioni tecniche ed economiche, alcune delle quali sono già
oggi ampiamente collaudate. Per esempio lo “scheduling” per il trasporto merci,
per utilizzare in maniera sempre più massiccia l’informatica, e il “pricing”
per i passeggeri, per evitare la congestione attraverso pedaggi sempre più
estesi e sempre più differenziati per fasce orarie. Insomma, se volessimo
utilizzare uno slogan, potremmo dire che si sta passando dai TIR ai BIT. Infine
il “Transport Study” prende adeguatamente a carico gli obiettivi ambientali, così come definiti dal
“Rapporto Stern” dell’ottobre 2006. Qual è il nuovo modello di sviluppo che si
comincia a intravedere?
Oltre
la crescita materiale
Nel 1972 il “Club of Rome” pubblicò il
rapporto su “I limiti dello sviluppo”. Le conclusioni sul futuro dell’uomo e
del Pianeta erano pessimistiche, per una serie convergente di ragioni.
Innanzitutto si partiva dall’idea che lo sviluppo si identificasse
sostanzialmente nella crescita materiale. Basti ricordare che nella versione originale, in inglese, il
titolo del rapporto era “The limits of growth”. Del resto allora la povertà era
ancora la condizione prevalente dell’umanità. Inoltre in quel periodo storico
il tasso di incremento demografico aveva superato il 2% annuo e tendeva ad
aumentare ancora; si doveva così prevedere un raddoppio della popolazione
mondiale ogni 30 anni. Combinando questi fattori, ne derivava un’impellente
necessità di crescita, della quale, peraltro, non si riusciva a scorgere
nessuna fine. Ma questa crescita comportava sia il consumo di risorse sia la
produzione di inquinamenti. E, dato che risorse ed inquinamenti avevano a che
fare con le dimensioni finite del pianeta Terra, ne discendeva l’impossibilità
di quadrare il cerchio. Conclusione: la crescita senza limiti era obbligata ma
irrealizzabile.
Nasce così la “cultura
dei limiti”: ogni cosa, prima o poi, è destinata a finire. Al massimo, quello
che si può fare è gestire con saggezza il patrimonio disponibile, per farlo
durare il più a lungo possibile. Questa cultura porta ad una visione
fatalistica e dirigistica e, sul piano personale, concede forti attenuanti
all’inazione e alla deresponsabilizzazione. Del resto, a sostegno di questa
cultura c’era anche la validazione scientifica del MIT che, per conto del “Club
of Rome”, aveva approntato i primi modelli matematici a scala planetaria. Per
esempio, per il rame, metallo fondamentale per tutte le apparecchiature
elettriche, era stato previsto il suo esaurimento in un arco compreso fra 36 e
48 anni, e cioè al minimo il 2008 e al massimo il 2020. Che cosa è in realtà successo?
Nonostante la domanda sia stata molto più alta del previsto, oggi, a meno di un
anno dalla prima scadenza, non solo non si è esaurito nulla, ma non c’è ancora
alcuna ombra di tensione sui prezzi. Semplicemente è accaduto che oggi
riciclare il metallo costa meno che estrarlo. Quindi possiamo ancora prevedere
che le miniere verranno chiuse, magari proprio entro il 2020, ma non per
esaurimento delle stesse, bensì perché non ci sarà più domanda di minerale
vergine. E questo succederà non solo grazie al riciclo, ma anche e soprattutto
grazie ad un uso sempre più efficiente della materia. La recente direttiva
comunitaria “Raee” sul riciclo e sul riuso dei prodotti elettrici ed elettronici
darà una poderosa spinta in questa direzione. E quella del rame non è affatto
una storia isolata.
In Germania, da
quest’anno, le auto prodotte, alla fine del loro ciclo di vita, devono essere
ritirate dalle fabbriche al 90% e, di questa percentuale, deve essere riciclato
l’80%. Nel 2015, i valori saliranno rispettivamente al 95% ed all’85%. In una
data da fissare successivamente si arriverà al 100% di tutto. Oggi, per
costruire un’automobile, servono almeno 20 tonnellate di materie prime. Di
esse, nell’arco di qualche decennio, non ci sarà più bisogno. Questo trend,
oltre la materia, riguarda anche l’energia. Un solo dato può essere indicativo.
L’Agenzia Internazionale per l’Energia, (Iea), ha comunicato che i 30 Paesi più
industrializzati, che assorbono il 60% del petrolio, nel 2006 hanno ridotto
dello 0,6% la domanda rispetto al 2005. E’ vero che i prezzi erano alti e
l’inverno è stato mite, ma le ragioni decisive consistono sia in un uso sempre
più consistente delle fonti rinnovabili, sia in un consumo sempre più
parsimonioso dell’energia. Se ne ricava una linea di tendenza generale: la
produzione dei Paesi più avanzati è sempre più fatta di conoscenza ed ha sempre
meno bisogno di materia e di energia.
Oggi, dunque, cominciamo a distinguere
fra sviluppo e crescita materiale. Per quanto riguarda la crescita, che è
quella che serve a soddisfare i fabbisogni primari della popolazione, oggi
cominciamo a pensare che essa finirà, non a causa dei limiti, ma perché di essa
non avremo più bisogno. Grazie alla tendenza all’esaurimento della transizione
demografica, ma grazie anche e soprattutto ai progressi della scienza e della
tecnica. Finita la crescita, ci sarà sempre più spazio per lo sviluppo, cioè
quello sviluppo che tenderà a non avere più nulla di necessitato e che avrà
sempre meno bisogno di materia e di energia. Sarà una sorta di sviluppo
creativo, alimentato dalla conoscenza e dalla fantasia e intessuto con le
libere scelte degli uomini.
Il mondo politico
italiano, ma anche quello culturale, sono rimasti fermi ai “limiti dello
sviluppo”. Molti buoni propositi ma poche azioni concrete. Sarebbe molto
stimolante cominciare a dibattere nel nostro Paese non solo di crescita ma
anche di un nuovo modello di sviluppo, possibilmente coinvolgendo anche quei
tanti italiani che sempre più spesso dimostrano che la creatività è già
diventata il motore fondamentale della loro vita quotidiana.