Sommersi dai veleni radioattivi
di Primo Di
Nicola
La vicenda dei rifiuti è una
dimostrazione di quanto sia sbagliata la scelta
nucleare. Anche per un paese che lo ha dismesso, eliminarne le conseguenze non è facile. Alfonso Pecoraro Scanio, ministro
dell'Ambiente, è preoccupato per la piega che ha preso la vicenda del decommissioning. E ha chiesto all'Agenzia per la protezione
dell'ambiente una radiografia completa dei ritardi e
dei rischi accumulati. ...
Il centro di Roma è a soli 20
chilometri. E intorno all'area dell'Enea sono ormai
sorte borgate con 30 mila persone. Eppure è lì che
parte dell'eredità nucleare italiana dorme sonni lunghi e tormentati: oltre
4.500 metri cubi di scorie, frutto degli esperimenti dell'atomica tricolore e
delle terapie del sistema sanitario, chiusi in depositi che registrano più di
una crepa. L'ultimo allarme è scattato a ottobre: un
banale malfunzionamento del sistema di sicurezza ha fatto sfiorare la minaccia
radioattiva. Altri pericoli si corrono ogni giorno nelle vecchie centrali del
Garigliano o di Latina, nei depositi di Saluggia o Rotondella: lì dove l'Italia ha cercato di nascondere i
suoi 25 mila metri cubi di rifiuti ricevuti in testamento dalla politica
nucleare degli anni Sessanta e Settanta. Finora sono stati spesi oltre 15 mila
miliardi di vecchie lire per fermare le centrali, poi dal 1999 a oggi è stato messo sul tavolo un miliardo di euro per
bonificare i residui. Ma la sicurezza è lontana. E per
fare pulizia si stima che ci vorranno altri 4.300 milioni di euro.
Quando sarà possibile dichiararci 'No nuke' una volta per tutte? Non prima del 2024. Fino ad allora il pericolo resterà alle porte di casa.
Come al Centro ricerche Casaccia dell'Enea, XX municipio di Roma. Qui, nel
punto più delicato del complesso, nei locali dove sono custodite
apparecchiature contaminate, rifiuti nucleari e importanti quantitativi di uranio e plutonio, da mesi è fuori uso l'impianto
antincendio. Il 30 ottobre proprio a causa del malfunzionamento dell'apparato,
una quarantina di bombole hanno scaricato anidride
carbonica dentro l'impianto Plutonio: un getto simultaneo che ha provocato un
enorme aumento di pressione. Sono saltate un paio di porte di sicurezza, ma
poteva andare molto peggio se uno delle decine di contenitori di materiali
radioattivi avesse registrato una perdita. Si tratta
di plutonio: un'emissione all'esterno avrebbe fatto scattare l'emergenza anche
per la popolazione circostante. Per evitare che un incidente simile si ripeta, l'impianto antincendio è stato bloccato. Era
sovradimensionato: per spegnere le fiamme rischiava di fare esplodere il
palazzo.
Grandi timori anche in Campania per un impianto obsoleto con
strutture fuori norma che rischiano di cedere, provocando danni irreparabili.
Capita a Sessa Aurunca, nella centrale nucleare del
Garigliano, ferma da 27 anni. Sopra il reattore continua a stagliarsi
minaccioso il camino alto 90 metri. Costruito in calcestruzzo, mostra tutti i
segni dell'abbandono: l'intonaco si sgretola, l'armatura metallica spunta dal
cemento come uno scheletro sempre più corroso. È in una zona sismica ad alto
rischio: per questo l'Agenzia per la protezione dell'ambiente (Apat), che insieme a vari ministeri gestisce il 'decommissioning' nucleare, da
anni ha chiesto il suo smantellamento. L'incubo è che il camino ceda,
schiantandosi sulla sfera bianca che custodisce il reattore. Una scena da film
catastrofico anni Settanta? No, si tratta di pericoli
concreti, anche se nessuno può prevedere le conseguenze della fuga radioattiva.
Scandalo
atomico
Vent'anni dopo il referendum con cui gli italiani
dissero no al nucleare, terrorizzati dalla nuvola di Chernobyl,
l'eredità atomica resta pesante. Con una serie di casi inquietanti che
'L'espresso' ha potuto documentare per la prima volta entrando nel
centro della Casaccia e nell'impianto del Garigliano.
Nella base della Casaccia ormai inglobata dalle borgate romane si vive
un'atmosfera particolare. Pare di inoltrarsi dentro una
matrioska di cemento armato, dove la protezione aumenta mentre si avanza verso
l'interno. Nel cuore c'è il magazzino con le cassette di plutonio. Una
selva di telecamere seguono ogni passo del visitatore,
tutto è custodito da una doppia blindatura, che non lascia filtrare nemmeno i
rumori. Ma colpisce ancora di più la sala delle
'scatole a guanti', con i macchinari che servivano
per confezionare il combustibile nucleare. Si cammina tra file di cubi
trasparenti, illuminati all'interno: l'atmosfera ha qualcosa di spettrale a
metà strada tra una fiction di fantascienza e un racconto horror. Qui il
pericolo è ancora di casa: sette operai sono rimasti contaminati dalle perdite.
I tecnici negano persino che ci sia stata una crepa: parlano di sostanze
'trasudate'. Ma si capisce che la presenza dei
giornalisti è un evento eccezionale, da tenere sotto controllo quasi più dei
rifiuti tossici. Invece sul Garigliano c'è un clima da
fortezza Bastiani: è l'ultimo presidio di un passato
tecnologico. Il personale sa di rischiare, ma lo smantellamento
significherebbe la disoccupazione: ogni anno lo Stato spende dieci milioni di euro per la manutenzione di questo gigante abbandonato.
Dentro la vecchia centrale il tempo si è fermato al 23
novembre 1980, quando il terremoto in Irpinia fece
scoprire che quella era una zona sismica. Tutto congelato, prima di Chernobyl e prima ancora del referendum. È quasi un museo di archeologia industriale, dove i fantasmi sono in grado di
provocare contaminazioni concrete. La centrale del Garigliano aveva un gemello dall'altro lato dell'Atlantico, costruito negli
stessi anni a Big Rock Point negli Usa. Gli
americani l'hanno sfruttata fino al '97 e poi hanno spento il reattore. Con 350
milioni di dollari è stato smontato e ripulito tutto: l'area trasformata in 'prato verde' è stata consegnata
nel 2005 allo stato del Michigan per farne un parco. Sul Garigliano invece ogni
cosa è illuminata dalla paura.
L'onda letale
In
tutta Italia centrali e apparati sono ancora lì con tutto il loro armamentario
radioattivo e la coda sterminata dei rifiuti nucleari per i quali non si riesce
a trovare una collocazione definitiva. Basta andare a Saluggia, in provincia di Vercelli, per imbattersi in una
piscina con combustibile irradiato che perde liquidi: colano nel terreno in
profondità, minacciando le falde acquifere. Accade nel sito Eurex
(Enriched uranium extraction) dove in una vasca di 625 metri cubi sono
sepolti 52 elementi di combustibile nucleare provenienti dalla centrale di
Trino e da quella del Garigliano. C'è persino una dose di scorie importate dal
reattore di ricerca di Petten
(Paesi Bassi). I cittadini di Saluggia da tempo chiedono di portare via tutto: l'impianto Eurex si trova a pochi metri dagli argini della Dora
Baltea, dove le alluvioni sono frequenti e toccano anche la bara dei rifiuti
più tossici. L'ultima volta è accaduto nel 2000: da allora è stato tirato su un
muro in cemento, estrema barriera contro la piena. Ma
il rischio idrogeologico incombe lo stesso, così come il timore dei residenti.
Gli esperti dei ministeri (Sviluppo economico, Ambiente) studiano da tempo una soluzione del problema con i responsabili dell'Apat. Due decenni di progetti, piani e controrelazioni,
ma poco si è mosso. "Abbiamo speso tantissimi soldi senza eliminare i pericoli",
dichiara Aleandro Longhi, il deputato che invoca una
commissione parlamentare d'inchiesta sui ritardi nella bonifica: "L'Italia
è diventata una pattumiera nucleare, uno dei paesi più a rischio di incidenti e inquinamenti radioattivi".
Bolletta salata
Eppure per l'uscita dal nucleare gli italiani stanno pagando un conto
salatissimo. Tra quello che è andato all'Enel
(12 mila 315 miliardi di lire) e gli oneri riconosciuti alle imprese
appaltatrici vittime dello stop referendario (altri 3 mila miliardi di lire)
sono stati bruciati 15 mila miliardi di lire. Poi ci sono i costi veri e
propri del 'decommissioning'
nucleare. È dagli inizi degli anni Sessanta, quando le centrali erano ancora in
costruzione, che i contribuenti versano denaro per il loro smantellamento.
Compresa nella bolletta dell'Enel, c'è sempre stata
una 'quota atomica': serviva per creare due fondi per
la dismissione. Questi due ricchi conti, che nel frattempo avevano raccolto
oltre 331 milioni di euro, nel novembre del 1999,
sotto la supervisione dell'Autorità per l'energia, sono stati riversati nelle
casse della Società per la gestione degli impianti nucleari (Sogin), che si occupa del decommissioning.
E non basta. A partire dal 2000, sempre nella
bolletta, con la cosiddetta 'tariffa A2' gli utenti hanno continuato a
finanziare il 'decommissioning'
pagando (con vari ritocchi successivi) 0,6 lire a chilowattora. In questo modo,
fino al 2006, sono stati raccolti altri 622 milioni di euro,
anch'essi finiti alla Sogin. In totale, quasi un miliardo
di euro. Ma è solo un
antipasto. La pulizia definitiva richiederà altri 4,3 miliardi, da sborsare
entro il 2024.
Eredità nucleare
Bloccate dal referendum, nella Penisola ci sono una lunga serie di installazioni, realizzate tra la fine degli anni Cinquanta
e gli anni Settanta, tutte da svuotare, demolire e riportare a 'prato verde'. Per cominciare, le quattro centrali elettronucleari del Garigliano, Latina, Trino e Caorso; l'impianto per il combustibile della
Fabbricazioni nucleari di Boscomarengo (Alessandria);
i centri pilota Eurex e Itrec
per il riprocessamento del combustibile nucleare
esaurito, quest'ultimo situato alla Trisaia (Matera); il deposito Avogadro
(Fiat), anch'esso a Saluggia: infine, le strutture di
ricerca come i laboratori Plutonio e Opec del Centro
dell'Enea della Casaccia e del Centro comunitario Ispra
(Varese) per il trattamento e il deposito di rifiuti radioattivi. C'è poi una
mole sterminata di scorie, lasciate lì dove erano state
prodotte: strutture spesso prive di quei requisiti internazionali di sicurezza.
Insomma, uno stoccaggio all'italiana. Si tratta di 25 mila metri cubi di
materiali radioattivi di prima, seconda e terza categoria (questi ultimi
continuano a emettere radiazioni per centinaia di
migliaia di anni), a cui vanno aggiunti i 60 mila metri cubi degli impianti da
smantellare, gli altri 6 mila di rifiuti condizionati frutto delle operazioni
di riprocessamento del nostro combustibile effettuate
in Inghilterra, più la parte di competenza italiana del combustibile utilizzato
dal reattore Superphenix in Francia. Per 12 anni
tutti hanno fatto finta di niente, limitando al minimo gli interventi di
bonifica. Solo nel 1999, per iniziativa di Pierluigi Bersani,
allora ministro delle Attività produttive, fu varata la Sogin,
cui venne affidata la disattivazione accelerata degli
impianti e il trattamento dei rifiuti stoccati nei siti di produzione. Anche
l'attività di questa società è andata avanti con lentezza, tanto che nel
febbraio 2003, quasi due anni dopo le Torri gemelle, a fronte dei rischi di attentati il governo Berlusconi
decretò lo stato di emergenza nelle regioni (Piemonte, Emilia Romagna, Lazio,
Campania, Basilicata) che ospitano i centri nucleari: l'allora presidente della
Sogin, il generale Carlo Jean,
fu nominato commissario per la sicurezza dei materiali e delle installazioni
nucleari. La sua missione era chiara: costruire un deposito nazionale, dove
concentrare tutte le scorie disseminate lungo la Penisola. Compito assolto?
"Macché", sottolinea Tommaso Sodano, presidente
della commissione Ambiente del Senato: "Il deposito non è stato realizzato
e i rifiuti solo ancora sparsi per l'Italia. Per il decommissioning
è stato fatto poco o niente". Quanto esattamente?
"Forse solo il 10 per cento del lavoro complessivo", ammette Massimo
Romano, da pochi mesi amministratore delegato di Sogin.
Avanti piano
Per
quanto riguarda le centrali si sono qua e là
smantellate sale turbine (a Trino), rimosso amianto (a Caorso),
decontaminati i circuiti e smontate le condotte (Latina). Il grosso è rimasto
invece in piedi. Ogni anno 50 milioni vengono divorati
dalla Sogin per la manutenzione di questi mostri
addormentati. Soldi che si potevano risparmiare intervenendo
prima. Perché tanti ritardi? Tra ministeri, Apat e Sogin è tutto un palleggio
di responsabilità: colpa degli uffici incapaci di autorizzare i progetti. No,
replicano gli altri: quei disegni sono inadeguati. Sembra incredibile, ma
nonostante siano stati presentati quasi dieci anni fa i piani globali per la disattivazione di tutte le centrali, le
pratiche continuano a rimbalzare da una scrivania all'altra senza arrivare a
una decisione. Analoga sorte per i Via, gli studi di
valutazione per l'impatto ambientale. Dipenderà magari dal fatto che le
pratiche sono troppo complicate? No: i permessi tardano anche per le richieste
più elementari, come la realizzazione del deposito provvisorio per i rifiuti
ora stoccati in locali inadatti (Latina) o il nuovo settore
serbatoi dove collocare i rifiuti liquidi a più alta attività e ancora
esposti al rischio attentati (Saluggia). E il deposito nazionale? Buio pesto anche su questo fronte. Dopo l'affaire Scanzano e la rivolta
della Basilicata, nel 2003 Berlusconi aveva varato
una commissione di 19 esperti per individuare un nuovo sito definitivo: non si
sono mai riuniti una sola volta.
Poi c'è il delicato capitolo degli enti locali: a sentire la Sogin in questi anni hanno fatto a gara per complicare gli
iter burocratici, mettendo ogni ostacolo alla bonifica. Sfiora il
ridicolo la vicenda delle licenze negate dal comune di Sessa Aurunca per la centrale del Garigliano. Ci sono i rifiuti
nucleari chiusi in modo precario dentro una struttura dichiarata 'pericolosa
per rischio sismico'. E c'è
una trincea a pochi metri dal fiume dove sono sepolte buste di plastica zeppe
di scorie, inumate negli anni Settanta. Una situazione di
doppio pericolo, che l'Apat ha tentato di risolvere:
ordine di disseppellire i rifiuti contaminati e spostarli in un magazzino da
costruire secondo i criteri di sicurezza. Facile? No, perchè per il magazzino ci vogliono le licenze edilizie. E
gli amministratori comunali non si fidano: la popolazione teme che una volta assemblato il bunker, vi siano trasferiti detriti
tossici da altre regioni. Quindi il municipio ferma i
lavori con un pretesto: "Quella per noi è rimasta una zona agricola e
l'edificio per il deposito non si può fare", spiega l'architetto Gabriella
Landi, responsabile dell'Ufficio tecnico municipale. E le licenze edilizie rilasciate negli ultimi venti anni? E la stessa costruzione della centrale autorizzata tanti
anni fa? L'architetto non sente ragione. Anzi, rincara: "La centrale non risulta nemmeno sulle mappe del nostro piano di
fabbricazione, per noi è come se non esistesse". Un fantasma, dunque.
"Ma anche un paradosso causato dalle regole del decommissioning",
precisa Massimo Romano: "I nostri vincoli, che vogliamo comunque
rispettare, vanno ben oltre i migliori standard internazionali". Intanto in attesa di fare meglio del meglio, non si fa nulla.
Capitale esplosiva
È con questo andazzo che l'eredità nucleare continua a costituire una
minaccia. Alla Trisaia le radiazioni avanzano a causa
di una fossa che non si riesce a bonificare: lì l'Enea ha scaricato in passato
rifiuti solidi 'ad alta attività'. Al deposito Avogadro di Saluggia si sfiora la
farsa: il ministero dello Sviluppo economico e l'Apat
prima non hanno rinnovato la licenza di esercizio, poi
hanno concesso una proroga di tre anni. Forse confidano nella clemenza delle
piene della Dora. Nel frattempo lì continua a perdere
liquido un'altra piscina contenente elementi di combustibile radioattivi. Ma invece di chiudere, raddoppia: Avogadro
è ora candidato a ricevere il combustibile che si vuole togliere dal vicino
sito Eurex.
Ma è nel XX municipio di Roma, a cento metri
dall'abitato di Osteria Nuova, che si è creata la situazione più esplosiva. Qui
la società Nucleco (controllata da Sogin) ha realizzato nel silenzio generale un nuovo
magazzino: il deposito nazionale di rifiuti nucleari prodotti dal sistema
sanitario. Si tratta di oltre 4 mila metri cubi, frutto di radiografie e
chemioterapie, ammassati in capannoni ormai al limite.
Loredana De Petris, senatrice Verde, ha da tempo lanciato l'allarme: "Continuare a raccogliere
rifiuti nucleari in un'area così densamente urbanizzata è in contrasto con i
più elementari principi di precauzione". Tutto inutile. Nuovi carichi
pericolosi arrivano nel sito. Che è vulnerabile a un
attacco esterno: non servirebbero incursori agguerriti, potrebbe bastare una
molotov. E le fiamme sarebbero in grado di innescare
un disastro. Arrivare al muro di cinta è facile, come ha constatato
'L'espresso'. D'altronde, come si fa a isolare totalmente una base che ormai è circondata dalle
case?
LA MAPPA DEI
RIFIUTI RADIOATTIVI